SEVESO – “Ricordo una frase del grande architetto Richard Rogers, che mi ha profondamente colpito e che mi ha accompagnato in questi anni di studio e negli ultimi due in cui ho lavorato come tecnico: ‘Non si può pensare un’architettura senza pensare alla gente’”.
Per lei, Paola Caglio, architetto sevesino di 30 anni, è diventato forse una ragione di vita. Un motivo più che valido per lasciare il posto di lavoro, un’assunzione a tempo indeterminato in un’azienda di Desio con l’incarico di responsabile dell’ufficio tecnico, per andare in zone più spartane dove c’è molto da costruire. L’Africa, dove non si tratta di edificazione selvaggia, bensì di infrastrutture da realizzare anche per garantire la sopravvivenza della popolazione.
L’architetto è in attesa di una chiamata. Esperienze ne ha già accumulate parecchie. “Sono stata più volte in Rwanda, ma anche in Togo, in Malawi, in Mozambico, in Albania e in Palestina. Approfittavo dell’estate per fare queste esperienze limitate nel tempo. Tutte gratificanti, utili per fare nascere in me il desiderio di coniugare i miei interessi con le mie passioni e i miei valori”.
Poi il grande passo: alla fine del 2017 ha mollato il lavoro in Brianza per andare un anno in Tanzania a Kongwa, cittadina di 10 mila abitanti a 80 chilometri dalla capitale Dodoma. Mentre le precedenti esperienze erano più brevi e di volontariato generico, stavolta ha messo a frutto le sue competenze di architetto realizzando pozzi per l’acqua potabile e serbatoi di accumulo.
Un progetto con una ong di Cuneo in collaborazione con Ufundiko (ong locale), Università di Torino, Università di Dodoma, Hydroaid e Cuamm (Medici con l’Africa), finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.
Ora si cambia: tra pochi giorni la partenza per l’Uganda. “Sarò a Kamwenge, realtà che vive il problema delle migrazioni dal Congo. C’è una emergenza abitativa che riguarda i rifugiati, in particolare le bambine che vengono emarginate. Per loro sarà progettata una scuola, per far sì che attraverso l’istruzione possano riscattarsi dal punto di vista sociale, ma è necessario anche provvedere alla costruzione di un ospedale”.
Si tratta di sei mesi di lavoro, ammesso che non decida di prolungare la sua permanenza. “Rispondere adesso è difficile – dichiara l’architetto – spero di tornare con una risposta agli interrogativi che sono sorti nel tempo. Il lavoro per me è sempre stato la priorità, ora è giusto porsi altre domande. Tutti mi chiedono del lavoro. Anche qui sono pagata. Non ho il posto fisso, ma credo che l’incertezza lavorativa sia meno difficile da sopportare dei rimorsi. Preferisco essermi dedicata a qualcosa che mi ha dato tanto. Al ritorno si vedrà. Potendo scegliere, sarà sempre l’architettura, ma più ‘etica’ o ambientale”.
Nella valutazione non mancherà il pensiero alla famiglia. La sorella Silvia, 32 anni, è la persona che l’ha trascinata nelle varie esperienze dei campi di lavoro. Lei è ora impegnata in Perù in un progetto. A novembre rientrerà. A casa, invece, ci sono il fratello e i due genitori. Il papà, anche lui architetto, forse per la figlia immaginava una carriera più tradizionale. Ora è il suo primo sostenitore.
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Anche noi abbbiamo aiutato le popolazioni bisognose con soluzioni alle emergenze abitative