Dopo le piogge alluvionali di luglio torna a farsi sentire la carenza idrica, almeno nelle terre agricole che ricevono l’acqua irrigua dai grandi bacini lacustri dell’ovest Lombardia. Dei quattro laghi del Nord Italia che funzionano anche da ‘grandi accumulatori’ idrici per l’agricoltura la situazione più critica è quella del Lago Maggiore, nel 2023 ai minimi storici per quanto riguarda il livello dell’acqua.
L’invaso del lago, ovvero il volume di acqua il cui rilascio può essere regolato dalle opere idrauliche, è ridotto all’8% di capacità. Ciò avviene perché da molti giorni le portate di acqua in uscita, che alimentano i canali irrigui lombardi e piemontesi, sono molto maggiori di quelle in ingresso: le piogge estive, infatti, non sono state sufficienti a invertire il deficit idrico, in continuo peggioramento dalla metà di giugno.
Di più: si può dire che la carenza di precipitazioni non abbia mai smesso di pesare sulle portate degli immissari: da inizio anno nel lago si sono riversati meno di 2,8 miliardi di mc di acqua, poco più del 50% di quelli attesi in un anno medio: le conseguenze si vedono, tali da imporre limitazioni alla navigazione, con conseguenti disagi per la mobilità territoriale.
Dà da pensare anche la situazione del Lago di Como, che al momento ha un volume di invaso pari al 26% della capacità, ma il cui livello si sta abbassando al ritmo di 5 cm al giorno: di questo passo il minimo di regolazione sarà raggiunto in 7-10 giorni, rischiando di lasciare a secco le colture di mais a pochi giorni dal raccolto.
Non desta invece preoccupazione la situazione dei laghi della Lombardia orientale: sia il Sebino che il Benaco sono pieni per oltre il 50% della loro capacità, un dato superiore a quello che si misura normalmente in questo periodo dell’anno: questa la situazione fotografata dai rilevamenti di ARPA Lombardia e degli enti regolatori dei laghi.
“È ormai evidente che il sistema di accumulo e gestione delle acque a fini irrigui della pianura lombarda non è più in grado di garantire una sufficiente affidabilità, in un quadro climatico in forte evoluzione – dichiara Damiano Di Simine, responsabile scientifico Legambiente Lombardia -. Una stagione estiva allungatasi di quasi un mese, l’assottigliamento dei ghiacciai, il ricorrere di periodi prolungati di siccità e caldo estremo indicano la necessità di soluzioni adattative, abbandonando le monocolture, in particolare del riso e del mais, a favore di una maggiore diversificazione”.
La crisi del Lago Maggiore espone in particolare la coltura del riso, in cui negli ultimi anni sono state fatte scelte che hanno determinato un aumento di fabbisogno idrico estivo. Soprattutto l’abbandono degli allagamenti invernali e primaverili per passare alla coltura ‘in asciutta’ ha privato le falde acquifere di un prezioso rifornimento nelle stagioni in cui, normalmente, l’acqua è più disponibile e meno soggetta ad evaporazione, costringendo ad aumentare le irrigazioni nel periodo di luglio-agosto: paradossalmente, le camere di risaia non più allagate peggiorano, anziché migliorare, la criticità irrigua della coltivazione del riso.
Occorre sicuramente ripristinare la coltivazione allagata, soprattutto nelle fasce di alta e media pianura, insieme alla circolazione invernale delle acque nel sistema irriguo: tutte pratiche che alimentano la falda freatica, riducendo le criticità nelle aree più prossime al Po, come in Lomellina. Allo stesso tempo bisogna ripristinare le rotazioni agricole, anche se ciò comporterà una riduzione delle superfici investite a riso, favorendo la differenziazione colturale a beneficio di altre produzioni meno idro-esigenti: una scelta sicuramente difficile per il comparto risicolo, ma ormai necessaria per affrontare la crisi climatica, e che potrà portare benefici, sia in termini di minor bisogno di fitofarmaci e fertilizzanti, sia di miglioramento del suolo e della sua sostanza organica, e quindi di capacità del suolo stesso di trattenere acqua.
Occorre però anche trovare un migliore equilibrio tra i diversi utilizzatori della risorsa idrica: nel bacino del Lago Maggiore, infatti, non è del tutto vero che manchino accumuli idrici. Sebbene al di sotto della media (-27% secondo il dato fornito da Arpa Lombardia riferito al 30 luglio), negli invasi idroelettrici alpini del bacino del Verbano risulta un volume di oltre 350 milioni di mc, in gran parte derivante da fusione glaciale, una quantità 12 volte superiore a quella disponibile nel lago per la regolazione, e sufficiente ad alimentare i canali irrigui per oltre un mese, quindi ben oltre la mietitura. Certo, una gran parte di quest’acqua si trova in territorio elvetico, e quindi l’accesso a questa risorsa richiede un’azione diplomatica da condurre nelle opportune sedi.
“Lo stoccaggio energetico alpino è sicuramente strategico, ma è inaccettabile che la regolazione degli invasi risponda esclusivamente all’interesse economico degli operatori energetici, se ciò significa tirare a secco il lago, i fiumi e i campi coltivati sottostanti – conclude Di Simine -. Crediamo che serva un maggiore sforzo di coordinamento tra le autorità lombarde, piemontesi ed elvetiche, perché la situazione è inaccettabile: oltre a determinare danni ambientali ed economici, espone al rischio di tensioni sociali e politiche”.